Opinioni

Galimberti: “Pensavamo di controllare tutto, anche il futuro. Il Virus fa emergere la nostra precarietà”

Galimberti: “Pensavamo di controllare tutto, anche il futuro. Il Virus fa emergere la nostra precarietà”

Cosa rappresenta il futuro per l’uomo al tempo del Coronavirus. Se lo è chiesto il sociologo Umberto Galimberti, in un intervento su Gq. Una riflessione che Galimberti, alla vigilia del suo 78esimo compleanno che cadrà il prossimo 2 maggio, ha scritto all’insegna del cambiamento. Un cambiamento imposto e che ci appare insopportabile. “Anche se l’umanità ha superato di molto peggio. Succede perché ci troviamo nella condizione in cui tutta la nostra modernità, la tutela tecnologica, la globalizzazione, il mercato, insomma tutto ciò di cui andiamo vantandoci, ciò che in sintesi chiamiamo progresso, si trova improvvisamente a che fare con la semplicità dell’esistenza umana. Siamo di fronte all’inaspettato: pensavamo di controllare tutto e invece non controlliamo nulla nell’istante in cui la biologia esprime leggermente la sua rivolta. Dico leggermente, perché questo è solo uno dei primi eventi biologici che denunceranno, da qui in avanti, gli eccessi della nostra globalizzazione”. 

Galimberti sottolinea, quindi, la nostra incredulità di fronte all’incapacità di erigere difese. Al non essere completamente padroni del nostro destino. All’emergere d’improvviso di tutte le ancestrali paure che l’uomo contemporaneo, soprattutto occidentale, pensava di aver cancellato. Ma è soprattutto nel rapporto con il futuro, improvvisamente indecifrabile, che si registra il vero e proprio buco dell’inconscio.

“Il Cristianesimo ha diffuso in Occidente un ottimismo che ci ha insegnato a pensare in questi termini: il passato è male, il presente è redenzione e il futuro è salvezza. Questa modalità di considerare il tempo è stata acquisita dalla scienza, che a sua volta dice che il passato è ignoranza, il presente è ricerca e il futuro è progresso….. Non è così. Il futuro non è il tempo della salvezza, non è attesa, non è speranza. Il futuro è un tempo come tutti gli altri. Non ci sarà una provvidenza che ci viene incontro e risolve i problemi nella nostra inerzia. Speriamo, auguriamoci, auspichiamo: sono tutti verbi della passività. Stiamo fermi e il futuro provvederà: non è così. Quindi cosa dobbiamo fare? Non c’è niente da fare, c’è da subire. Accettiamo che siamo precari: ce lo siamo dimenticati? Rendiamoci conto che non abbiamo più le parole per nominare la morte perché l’abbiamo dimenticata”.

Una riflessione profondissima, quindi, sull’essenza totale dell’uomo contemporaneo. Che tende a rispondere a una domanda comunissima in questi tempi sospesi. Tempi in cui l’idea di vita eterna, che accompagnava pensieri e letture di molti, sembra essersi d’improvviso sgonfiata. In un mondo in cui ci si interrogava su come gestire un tempo privo di malattie e percorso dalla ricerca della giovinezza eterna. Ecco arrivare il fattore imponderabile. In cui ci accorgiamo che non tutto era stato previsto. Forse perché, in fondo, non volevamo scoprirlo. Forse, come sottolinea Galimberti è giunto il momento di scoprire, prima di tutto, chi siamo noi.

” Avevamo affidato la nostra identità al ruolo lavorativo. La sospensione dalla funzionalità ci costringe con noi stessi: degli sconosciuti, se non abbiamo mai fatto una riflessione sulla vita, sul senso di cosa andiamo cercando. Siccome non lo facciamo, poi ci troviamo nel vuoto, nello spaesamento…. Non basta distrarsi nella vita, bisogna anche interiorizzare e guardare se stessi. Finora siamo scappati lontano, come se noi fossimo il nostro peggior nemico. I nostri week end non erano l’occasione per volgere lo sguardo a noi, ai nostri figli. Erano fughe in autostrada. Perché conosciamo due modalità dell’esistenza: lavorare e distrarci. Fuori dal quel cerchio, è il nulla”.

Insomma il futuro diventa, nell’analisi di Galimberti uno sconosciuto. Eppure pareva che noi potessimo determinarlo, dopo averlo domato. Ma il futuro è tornato a essere una fase del tempo, l’unica sconosciuta. Una fase che ora ci appare dominata dal virtuale. Ma che, osserva Galimberti, deve tornare a esse reale. Basta pensare a quanto questo sia fondamentale nell’età dell’istruzione scolastica.  Perché la sfida finale è quella di non perdere il rapporto con l’altro. Con il corpo dell’altro.

“Un conto è dirsi le cose in rete, un conto è dirsele di persona. Il problema, da qui in poi, è di continuare ad avere una relazione sociale secondo natura, in cui un uomo incontra un uomo, e non l’immagine di un uomo in uno schermo…. Secondo me l’animo umano era più all’altezza di queste situazioni all’epoca dei nostri nonni, quando la fatica e la penuria e la povertà erano le condizioni della solidarietà. Nelle società opulente abbiamo sviluppato invece l’egoismo, perché ci era consentito, non avendo più bisogno del nostro prossimo. Che l’umanità occidentale sia a perdere mi sembra evidente: siamo costretti in casa con le nostre scorte alimentari e il nostro letto caldo, l’unica pena che ci è inflitta è non poter uscire. Siamo il popolo più debole della Terra, il più assistito dalla tecnologia: se manca la luce per dodici ore andiamo nel panico. Mi spingo oltre: il razzismo di noi italiani, al di là di come viene indotto, ha una ragione radicata nell’inconscio. Abbiamo paura degli africani perché capiamo che quei signori capaci di attraversare i deserti, sopravvivere alle carceri e attraversare il mare sono biologicamente superiori a noi. Bios vuole dire vita. Ed è la biologia, accettiamolo, che vincerà”.

 

ANCHE QUESTE NOTIZIE SU OGGISCUOLA

Attenzione alla ricaduta: il Coronavirus e il rischio recidiva

Piero Angela: “Perché bisogna evitare la psicosi collettiva”

Elogio della lezione frontale: “Didattica è sentire che ciò che si conosce arrivi agli alunni senza sforzo”

Leggi qui altre notizie su OggiScuola

Seguici anche sulla nostra pagina social Facebook

 

Articoli correlati

Back to top button