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“Alla fiera dell’est”: tutti conoscono la canzone, ma non il vero significato del testo di Branduardi

“E venne il cane, che morse il gatto, che si mangiò il topo…” e così via sulle note della canzone “Alla fiera dell’est” di Angelo Branduardi.

Si tratta di un brano senza tempo, che generazioni e generazioni di bambini hanno imparato e continuano ad imparare a memoria grazie a genitori e insegnanti. Ma i personaggi raccontati nel testo, che si annientano a vicenda come in una sorta di “matrioska lirica”, sono semplicemente se stessi o rappresentano qualcos’altro?

Branduardi, il “menestrello” della musica italiana, è noto per la profondità storica e culturale che c’è dietro i suoi lavori. Basti pensare all’album ispirato alla vita di San Francesco, in cui l’autore racconta le vicende del poverello di Assisi basandosi sulle Fonti Francescane.

Ebbene, in questo senso, la canzone “Alla fiera dell’est” non fa eccezione.

Il brano, infatti, è liberamente ispirato al canto pasquale ebraico del Chad Gadya. Un testo che viene recitato al termine della Haggadah shel Pesach (Narrazione della Pasqua) durante la cena pasquale. Le dieci strofe del canto narrano le vicende non di un topolino ma di un capretto, che ricorda l’agnello pasquale col cui sangue gli israeliti marchiarono le loro porte per salvarsi dallo sterminio dei primogeniti in Egitto.

Il testo è una lunga metafora che, tramite personaggi che simboleggiano figure chiave della storia biblica, ripercorre la storia dell’Israele antico narrata nella Bibbia.

“Un capretto che mio padre comprò per due susim (denari)”. Così comincia il canto, con il Padre a rappresentare il Dio unico e il capretto a rappresentare il patriarca Abramo.

“E venne il gatto, che mangiò il capretto, che mio padre comprò per due susim”, prosegue il canto. Con il gatto a rappresentare il re di Babilonia Nimrod, un monarca che odiava il Dio unico tanto da sbattere Abramo in una fornace ardente, da cui uscì però miracolosamente illeso.

“Il cane” simboleggia il dominio dei faraoni d’Egitto, che superarono la potenza del “gatto” babilonese – specialmente nel periodo ramesside – senza però sconfiggerlo in battaglia. In questo senso il cane “morse” il gatto, senza ucciderlo.

“Il bastone” è quello che Dio donò a Mosè come strumento per realizzare i prodigi che avrebbero liberato gli israeliti dalla schiavitù d’Egitto (il cane).

“Il fuoco”, che bruciò il bastone, rappresenta le fiamme che divorarono Gerusalemme nel 586 a.C ad opera del regno neo-babilonese di  Nabucodonosor. Gli ebrei – dei regni di Giuda e Israele – vennero deportati in Babilonia, specialmente i maggiorenti e la classe sacerdotale.

Finchè, però, non sopraggiunse “l’acqua”, cioè il regno di Persia e Media retto da Ciro il Grande, il sovrano che sconfisse Babilonia consentendo agli israeliti di tornare in Palestina (libri di Esdra e Neemia).

“Il bue”, anche se sarebbe più corretto dire “il toro”, rappresenta la dominazione ellenistica sopraggiunta con la conquista di Alessandro Magno. Un periodo raccontato in modo critico dalla tradizione ebraica posteriore, specialmente dal Talmud, secondo cui i greci cercarono di oscurare la vista degli ebrei con una mentalità nuova e distorta.

“Il macellaio” che uccise il bue, rappresenta la conquista della Palestina da parte dei romani, che scalzarono i successori di Alessandro. Il rosso del sangue, intrinseco nella figura del macellaio, è il tratto distintivo della potenza bellica di Roma.

“L’angelo della morte” che uccise il macellaio, rappresenta i tumulti che annunciano l’arrivo del Messia, l’Unto di Dio destinato a liberare Israele dall’oppressione.

E venne il Signore, definito “l’Unico” nel testo originario, che uccise l’angelo della morte, riportando la canzone- con una struttura ad anello – verso il punto di partenza.  Il Padre, che ha “acquistato” alla fede il patriarca Abramo, ritorna alla fine dei tempi per adempiere le sue promesse.

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