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Scuola, De Vita (Censis): “Modello vulnerabile e in disperata confusione”

Gli assetti attuali portano a una scuola che ama autoproteggersi. La pandemia deve essere l'occasione per ricostruire

La premessa è che la pandemia ha squarciato il velo sulla vulnerabilità della scuola italiana. La conclusione, che un dibattito “serio” su come uscire dalla “disperata confusione” che la governa non è più prorogabile. In mezzo ci sono voci autorevoli e “fuori dal sistema” per ricostruire una scuola forte. Orientata all’esterno e fondata su un sistema reputazionale. Sono le posizioni emerse durante una giornata di riflessione organizzata dal Censis su problemi e prospettive della formazione scolastica e professionale. Evidenziata da Fortune Italia Una riflessione che parte dall’analisi dei processi culturali e politici che hanno determinato gli assetti attuali della scuola, contenuta nel saggio autobiografico del presidente del Censis, Giuseppe De Rita, dal titolo “Una disperata confusione: la scuola italiana al 2021”.

Il suo “primo amore”, come sociologo e ricercatore – ha raccontato De Rita aprendo la diretta streaming – fu proprio il mondo della formazione scolastica e professionale. Quest’ambito l’occupò per quasi un ventennio (fino alla fine degli anni ’60) vedendolo partecipare in prima fila a quell’“infuocata dialettica politica sul futuro della scuola italiana” che tenne banco in quegli anni. “Da quello scontro durissimo, ricorda, uscii personalmente sconfitto. Perché fautore di un modello di scuola legato al processo di sviluppo economico. E attento alle esigenze del sistema economico-sociale”.

SCUOLA, UN SISTEMA AUTOPROTETTIVO

Vinse, infatti, la cordata opposta, appoggiata dal mondo cattolico e dalla cultura di sinistra, “favorevole a una scolarizzazione a oltranza, a prescindere dalle reali possibilità di lavoro, finalizzata a formare l’uomo per l’uomo e non l’uomo per il sistema economico”. Una scolarizzazione lunga, onerosa per il paese e, allo stesso tempo, lontana dai tempi e dallo sviluppo del paese stesso che produsse negli anni – sostiene De Rita – “un sistema scolastico autopropulsivo, teso ad autoriprodursi, ad autoalimentarsi e a proteggersi. Che ha perso del tutto la capacità di relazionarsi col mondo esterno”.

Una scuola destinata all’autocondanna ed è questa, in sintesi, la dimensione della catastrofe fotografata dal Censis e suffragata dalle analisi implacabili consegnate dagli altri esperti del panel: l’economista Giulio Sapelli, il direttore della Fondazione Agnelli, Andrea Gavosto, e il direttore generale del Censis, Massimiliano Valeri.

LA PANDEMIA HA ACCESO I RIFLETTORI 

La pandemia, infatti, ha “solo” riacceso i riflettori su problemi che già affliggevano la scuola italiana da ann. Evidenziando una volta di più – a detta degli intervenuti – che nella faticosa fase che il paese sta vivendo, è questo l’ambito in cui “si registra il massimo d’incertezza. Tanto a livello d’idee che di programmi”. L’opinione pubblica si confronta confusamente solo con problemi interni al sistema scolastico come l’annosa questione dei precari. Delle dotazioni tecnologiche in classe, della Dad e dei banchi monoposto a rotelle, il Paese – avvertono gli studiosi – sta perdendo di vista le domande centrali cui invece urge rispondere: a cosa serve la scuola oggi? Dove si trova rispetto le trasformazioni socioeconomiche in corso?

TASSI DI ABBANDONO RECORD

Sullo sfondo della necessità di “riportare il dibattito fuori dal sistema scolastico”, Valeri ha evidenziato i contorni preoccupanti di una “scuola dell’esclusione”, con tassi d’abbandono record rispetto gli altri paesi Ue, in cui almeno l’8% degli studenti non è in condizione di seguire la didattica a distanza, percentuale che aumenta di tre volte nel caso di studenti diversamente abili.

La fotografia s’incupisce analizzando la popolazione studentesca italiana divisa – evidenzia Valeri – in modo netto tra studenti che non percepiscono più la scuola, priva di prestigio, come traguardo e ascensore sociale, dimostrando una disaffezione che spiega sia gli elevati tassi d’abbandono che il fenomeno Neet (n.d.r. giovani disoccupati e non coinvolti in attività formative).

E studenti che, al contrario, rischiano d’ingrossare le fila di un nuovo “proletariato cognitivo”. Perché dopo aver collezionato vari titoli di studio (universitario e post-universitario) corsi di specializzazione e di lingua, si devono misurare con un ambiente che non è pronto a soddisfare le loro altissime ambizioni.

La pandemia ha ulteriormente accentuato questa contrapposizione. Perciò oggi – a detta di Sapelli – bisognerebbe tornare a “un sistema scolastico omeostatico e integrato. Non solo nella riproduzione della vita economica. Ma anche nella riproduzione della vita sociale e culturale”. In altre parole, un sistema scolastico aperto al mondo, e “non populisticamente orientato all’uguaglianza”.

Un sistema alimentato dallo scambio d’informazioni tra esterno e interno, che “riconosce e cura la vocazione e l’orientamento dello studente”.  Di simile avviso Gavosto che come Fondazione Agnelli ha puntato il dito sulla necessità di uscire velocemente da un modello di scuola metafora di “riserva indiana”. Cioè vittima di un meccanismo autopropulsivo che “non è più sostenibile nel lungo periodo”.

I GRANDI TEMI DA AFFRONTARE

Tra i grandi temi da affrontare nel dibattito sul futuro della scuola. Secondo la Fondazione Agnelli, c’è quello dei metodi di reclutamento del corpo insegnante e delle graduatorie. Quello dell’autonomia (che in Italia non è mai stata realizzata fino in fondo). Ma anche il tema della scuola professionale su modello tedesco. Che risponde direttamente alle domande del mondo del lavoro. E che apre allo studente la strada della “laurea professionalizzante”, basata su laboratori e tirocini invece che su un approccio puramente teorico e accademico. Corsi di Laurea che in Italia non sono mai esistiti.

Quando l’Italia uscirà dall’incubo Covid potrebbe trovarsi, insomma, in una situazione molto simile a quella che caratterizzò il nostro dopoguerra. E la scuola, esattamente come allora, potrebbe trovarsi costretta “a guardare ai suoi studenti come cittadini e come lavoratori. Dimostrandosi ben più permeabile di quello che è stata finora all’idea di una cultura che porta verso il mondo del lavoro”, ha affermato Gavosto.

Non a caso, secondo De Rita, ci sono migliaia di famiglie che investono per fare studiare i propri figli .In centri d’eccellenza prestigiosi e collegati al mercato del lavoro. Migliaia di ragazzi che non vogliono più assorbire formazione che non serve al loro futuro. E migliaia di adolescenti che abbandonano una scuola ritenuta inutile”. “Sottotraccia e quasi silenziosamente – conclude – il rapporto tra domanda e offerta di formazione e competenze è tornato ad avere spazio”.

Sarà un compito “difficilissimo”, conclude il panel, ma tutto porta a pensare oggi che i tempi siano finalmente maturi anche per ricostruire la nostra scuola. E per investire veramente – non solo “spendere” – in istruzione e formazione del capitale umano.

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