DidatticaNews

Role playing: la didattica del futuro è un gioco di ruolo

Role playing: la didattica è un gioco di ruolo

Il role playing (gioco o interpretazione dei ruoli) consiste nella simulazione dei comportamenti e degli atteggiamenti adottati generalmente nella vita reale; i ruoli sono assunti da due o più studenti davanti al gruppo dei compagni – osservatori. Gli studenti devono assumere i ruoli assegnati dall’insegnante e comportarsi come pensano che si comporterebbero realmente nella situazione data.

Questa tecnica ha, pertanto, l’obiettivo di far acquisire la capacità di impersonare un ruolo e di comprendere in profondità ciò che il ruolo richiede. Il role playing non è la ripetizione di un copione, ma una vera e propria recita a soggetto. Riguarda i comportamenti degli individui nelle relazioni interpersonali in precise situazioni operative per scoprire come le persone possono reagire in tali circostanze. Gli elementi fondamentali del role playing:  si predispone una scena in cui partecipanti devono agire;  i partecipanti sono al centro dell’azione e devono recitare spontaneamente secondo l’ispirazione del momento;  l’uditorio assume particolare importanza poiché il gruppo non funge da semplice osservatore, ma cerca di esaminare e di capire quanto avviene sulla scena;  il docente deve mantenere l’azione dei partecipanti e la situazione scenica, anche sollecitando, suggerendo, facilitando l’azione fino al momento in cui gli studenti protagonisti non agiscono autonomamente;  il docente può avvalersi di collaboratori incaricati di favorire la recita, anche con la loro recitazione: potranno utilizzare tecniche come quella dello specchio (in cui rinviano gli atteggiamenti del soggetto al soggetto stesso) o la tecnica del doppio (in cui si sforzano di cogliere gli atteggiamenti tipici del soggetto prolungandone l’espressione e rendendo esplicito ciò che rimarrebbe latente).

Oltre alla tecnica dello specchio e a quella del doppio, il role playing si avvale di altre tecniche: l’autopresentazione. L’uso didattico di questa tecnica dovrà essere utilizzato soltanto relativamente alla “parte studentesca” dell’allievo, a ciò che è a scuola e a ciò che della sua vita personale “può” essere portato a scuola. L’autopresentazione che trasferisce esplicitamente i vissuti personali e familiari, dove il soggetto libera “ciò che ha dentro” ha valenze terapeutiche che esulano dalle finalità e dalle competenze della scuola secondaria. Poiché, comunque, accade che la scuola sia investita dello “star male” personale e familiare di qualche allievo, tale sofferenza non va catarticamente riversata sul gruppo-classe (potrà essere d’aiuto parlare con un insegnante o con un counsellor psicologo; in alcune scuole è presente questo servizio di “sportello psicologico”). La classe è una comunità di apprendimento in cui anche i problemi dei singoli possono essere accolti, ma solo per essere elaborati concettualmente e se rientrano in un disegno formativo3 . Se i problemi degli allievi non rientrano nel progetto educativo bisogna valutare se essi debbano necessariamente essere affrontati e “compresi” dalla classe (altrimenti “sarebbe del tutto inutile fare scuola”) o se possano essere rinviati (in quanto “alibi per non fare scuola”). Tutto ciò per tutelare a) il soggetto che sta male, b) il gruppo dei compagni, c) l’insegnante che non possiede competenze tali da supportare il disagio psichico degli studenti. In queste situazioni sarebbe necessaria l’azione d’aiuto di un apposito team di docenti.

 Il monologo (le riflessioni personali dell’attore)  –  La presentazione di ruoli collettivi (uno stesso partecipante interpreta tutti i ruoli previsti)

 L’inversione dei ruoli: dopo aver sostenuto una posizione, provare a sostenere quella opposta. Ecco un esempio di inversione dei ruoli tratto dal classico “test di Turing”4 .

Il docente propone un gioco basato sugli stereotipi maschili e femminili, fornendone prima una spiegazione esaustiva; quindi la classe si divide in tre gruppi: > Gruppo A: composto di soli ragazzi. > Gruppo B: composto di sole ragazze. > Gruppo C: “gruppo di controllo”, composto di ragazzi e da ragazze. Il gruppo di controllo deve individuare qual è il gruppo formato dalle ragazze e qual è il gruppo formato dai ragazzi. Per fare questo porrà otto domande, identiche a due a due, ad entrambi i gruppi e si baserà sulle risposte per raggiungere il suo scopo. Il gruppo delle ragazze dovrà rispondere alle domande in modo sincero, femminile, senza cercare di ingannare il gruppo di controllo. Il gruppo dei ragazzi, invece, dovrà cercare di rispondere come farebbero le ragazze, immedesimandosi nel ruolo femminile. Il gioco è seguito da un momento di confronto (discussione guidata) in cerchio. Il gioco dei ruoli possiede una grande forza catalizzatrice che coinvolge emotivamente sia i partecipanti sia gli osservatori . A volte si tratta di esperienze difficili da vivere. Il docente è tenuto a rispettare questa presa di coscienza senza giudicare se ciò è giusto o pertinente.

Come ogni tecnica di sensibilizzazione utilizzata a scopi formativi, anche il role playing dev’essere utilizzato come tale (a scopi formativi), deve avere delle sequenze strutturate e deve concludersi con una verifica degli apprendimenti. Vantaggi del role play: > Aiuta a vincere la “curva della monotonia” in modo efficace. Perché ci si deve alzare, andare verso qualcuno, decidere chi fa questo e chi fa quello.

> È più lieve e didattica l’autocritica dello studente. Se la critica la fa il docente può essere sgradita o rifiutata.

Si crea, durante il role play, un clima giocoso e pratico-concreto che compensa gli aspetti teorici precedentemente trattati e spesso li conferma.

L’indice di apprendimento aumenta. Perché l’ascolto unito all’agire migliorano l’efficacia di quanto appreso e la sua ritenzione.

In una simulazione basata sulla tecnica del role playing esiste sempre un problema relativo al “livello di realtà” considerato accettabile. In genere questo è piuttosto basso, anche perché la simulazione è poco strutturata e lo scenario è solo un dato di partenza statico, che non reagisce alle sollecitazioni dei partecipanti, non muta per effetto delle loro decisioni e non è in grado di interagire con essi.

Nonostante questo limite, ciò che qualsiasi partecipante ad una “simulazione giocata” sottolinea è il suo coinvolgimento personale, il fatto che egli non stia continuamente a interrogarsi sul significato di quanto sta facendo e lo dia per scontato, esattamente come accade nella realtà quotidiana. La simulazione tende a diventare una “realtà operante”, in cui i meccanismi del gioco favoriscono il joint engrossment: un coinvolgimento condiviso che permette di riconoscersi insieme ad altri come facenti parte di un mondo sociale alternativo. Quanto più poi i sistemi di comunicazione sono complessi e multisensoriali, tanto più il livello di realtà della simulazione tende a coincidere con il livello di realtà della comunicazione interpersonale.

Leggi qui altre notizie su OggiScuola

Seguici anche sulla nostra pagina social Facebook

 

Articoli correlati

Back to top button