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Impronte digitali per i docenti? Una volta le ‘classi pericolose’ erano i delinquenti e i poveracci

Impronte digitali, scoppia la polemica. “Un ministero deve sapere chi c’è all’interno di un edificio di 1.200 persone”. Con queste parole, in un’intervista a Repubblica, il ministro della pubblica istruzione Marco Bussetti paventa l’idea di “schedare” gli insegnanti. “Bussetti avrà pensato: dato che i cellulari oggi usano l’identificazione mediante l’impronta elettronica dell’indice, perché non possiamo farlo anche noi?”. Commenta così, in modo sarcastico e salace, un articolo sempre su Rep, di Marco Belpoliti intitolato “Se schediamo anche i prof”.

Schedature ottocentesche

Belpoliti, docente di Critica letteraria all’università di Bergamo, suggerisce in tono ironico di andare anche oltre, utilizzando le misurazioni di Adolphine Bertillon, ideate nell’ambito della teoria fisiognomica e della frenologia. “Undici tipi di misurazione – spiega il prof – testa, orecchie, gomito, dito medio, anulare, piede sinistro, tronco e braccia, per realizzare un ‘ritratto parlante’ di ogni individuo” Ma sarebbe anche auspicabile qualcosa di più moderno, come le impronte digitali.

“Il diffusore di questa tecnica, che ha poi portato alle impronte digitali, è stato Francis Galton, cugino di Charles Darwin, noto soprattutto per le sue teorie eugenetiche. All’origine ci sono, non solo le inchieste di polizia e casi criminali risolti nel passato, ma precise ideologie razzistiche: la selezione della razza e la superiorità dei bianchi”. Una funzione di controllo, dunque, e di conservazione della razza.

“La storia delle impronte digitali – continua Belpoliti – è stata tutt’uno con quella del controllo delle ‘classi pericolose’, come le hanno definite gli storici, ovvero i contadini che nel corso della rivoluzione industriale si inurbavano in città come Londra o Parigi. Come fare a certificare l’identità delle persone? Nei villaggi tutti sanno tutto di tutti, si conoscono genealogie e discendenze, ma nelle metropoli chiunque può darsi il nome che vuole”.

Controllo delle “classi pericolose”

“La necessità di costruire archivi e sistemi di schedatura – dunque – sorge per una ragione di disciplinamento. Non bastano le descrizioni orali e scritte, e persino le fotografie si riveleranno inadeguate: ci si può travestire. Così entrano in gioco le creste cutanee che abbiamo sulle mani e sui piedi, sulle quali agiscono le ghiandole sudorifere, il cui compito è tenere lubrificata la pelle”.

Tornando all’iniziativa di Bussetti, Belpoliti chiede: “Davvero il ministro della Pubblica Istruzione pensa di schedare gli insegnanti prendendo loro le impronte? E il personale non docente, i segretari, i bidelli e ogni altra persona che transita nelle scuole, compresi i dirigenti?”.

I docenti sono i nuovi soggetti da controllare?

“La fissazione del controllo – conclude il critico – è trasmigrata dagli organi di polizia a un ministro che dovrebbe occuparsi d’istruzione e non di classificazione dei docenti”. “Questa è la questione scolastica di cui occuparsi in modo prioritario?” prosegue “Probabilmente finirà in una bolla di sapone; l’idea di trasferire nelle scuole i metodi di polizia è un’esagerazione. Ma anche se si tratta di una boutade, qualcosa di nuovo c’è: l’idea di iniziare a schedare”.

I docenti di oggi, come i diseredati senza faccia di ieri. “Se la ‘popolazione pericolosa’ erano i contadini immigrati – conclude Belpoliti – oggi chiunque può essere posto sotto controllo per esigenze di sicurezza. L’importante è cominciare a dirlo, e a forza di dirlo qualcosa poi resta, così anche l’ipotesi eccessiva diviene plausibile. Non ha già il dirigente scolastico i nomi e i codici fiscali dei suoi insegnanti? Quella di Bussetti è solo un’ipotesi gettata lì per saggiare la nostra docilità al sistema della schedatura. Prima era per i rom, adesso anche per gli insegnanti. Poi si vedrà”.

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