Opinioni

Programmi da medioevo, zero incentivi per i docenti. Boldrin: “La scuola va rivoltata da cima a fondo”

In un editoriale per Linkiesta intitolato “Laureati italiani, ecco perché non trovate lavoro: colpa della scuola, delle imprese (e un po’ pure vostra)”, l’economista Michele Boldrin tracciava qualche tempo fa un piccolo vademecum sui principali problemi del rapporto tra istruzione e mercato del lavoro nel nostro paese. Docente di economia alla Washington University in St. Louis, Oggi Scuola ha pensato di sentirlo direttamente per fargli qualche domanda.

L’istruzione in Italia non dà una formazione tale da fornire uno sbocco immediato nel mondo del lavoro. Può dipendere dal fatto che l’istruzione privata – per definizione più connessa al mondo dell’impresa – sia  ancora una sorta di tabù?

Io credo che effettivamente lo sia ancora, ma il gap tra istruzione – scolastica e universitaria – e il mondo del lavoro dipende dai programmi ministeriali che in realtà sono uguali sia per le istituzioni pubbliche che per le private. E’ una questione di didattica, in altre parole. Per lungo tempo si è pensato che il titolo di studio bastasse, specialmente per trovare un impiego nel settore pubblico. In questi ultimi anni, venendo un po’ di più in Italia, mi son reso conto che è subentrata una forma di fatalismo per questa disconnessione tra titolo di studio e lavoro. Quasi di fastidio.

Questa mentalità dello sbocco lavorativo scontato nel settore pubblico non cozza con quella che in molti chiamano “svolta aziendalista” della scuola e dell’università?

Se vuole, una svolta aziendalista nel senso brutto del termine effettivamente c’è stata. Le università sono diventate dei diplomifici più di quanto non lo fossero prima. In questo senso si. Non c’è stato, ad esempio, un adattamento dei programmi. L’adozione del metodo Bologna (il 3+2) non è stata fatta in modo adeguato. Poi ci sono le eccezioni, chiaramente. I politecnici di Milano, di Torino, le facoltà di medicina a Padova, Pisa etc dove hanno lavorato bene. Ma nella stragrande maggioranza dei casi gli atenei hanno spezzettato i corsi, inventato decine di nomi a caso e li hanno chiamati diplomi e lauree magistrali.

Se invece parliamo di aziendalismo con la solita critica da intellettuale dalla Magna Grecia, secondo cui la cultura non si compra, non serve per lavorare – come se fossimo tutti proprietari terrieri con schiavi che lavorano per noi mentre noi ci dedichiamo alla filosofia – beh, questa è una stronzata.

L’istruzione e l’università di massa servono innanzitutto per formare una persona in grado di sostenersi, di lavorare, di produrre e di essere utile agli altri. Che è la precondizione per qualsiasi sviluppo culturale, perché se non sei capace a far medicine non sei capace neanche di capire Cicerone.

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Basta dare un’occhiata a quanto spendono gli altri stati avanzati in istruzione, ricerca e innovazione

In Italia c’è una meccanismo avvitato su sé stesso. La spesa per l’istruzione è bassa e mal gestita, gli incentivi per i docenti sono pessimi, da qui parte la giustificazione per continuare a tagliare e il tutto si è avvitato. La reazione dovrebbe venire dal mondo della scuola, dove invece c’è solo passività e rabbia. Questo moto d’orgoglio dovrebbe venire da quella parte del mondo della scuola che ci tiene e che è disposta ad accettare criteri che forse – tornando alla domanda precedente – sarebbero definiti aziendalisti. Cioè, in altri termini, si premia chi fa meglio.

Ecco, più o meno intendevo anche quello…

Beh, se per criterio aziendalista si intende questo, allora non è solo il criterio della scuola. E’ il criterio dello sport, della vita in generale: chi fa meglio viene premiato in un modo o nell’altro, semplicemente questo.

Pur avendo tantissimi amici vicini alla mia età che lavorano nel mondo della scuola, in questi anni non ho visto una reazione di orgoglio da parte loro. Dato che stabilire criteri di competizione e di premialità “rende più difficile la giornata”, credo che la grande maggioranza non ci provi nell’ottica di mantenere il quieto vivere con gli altri colleghi. Invece si può e si deve fare. Nel mio dipartimento – ad esempio – c’è competizione tra i docenti, spesso amici, ma non si vive un’atmosfera tesa. Gli aumenti di stipendio che proponiamo al dean (equivalente a preside/amministratore del college, ndr) li presentiamo riconoscendo che tra noi c’è chi fa di più e chi fa di meno. Salvo casi di particolare narcisismo, le cose vanno in maniera pacifica.

Un sistema di competizione gradevole si può costruire, ma deve venire su iniziativa del corpo insegnante.

E le famiglie che ruolo hanno?

L’atteggiamento delle famiglie è cambiato. Questa è una questione culturale dovuta forse al fatto che i figli sono meno e quindi sono “più preziosi”. Però devo dire che tanti giovani viziati ed incapaci di prendersi responsabilità come in Italia io, nel resto d’Europa, non ne ho incontrati. Lo stesso vale per i genitori iperprotettivi e le varie forme di mammismo dilagante che stanno avendo un grosso e negativo impatto sulla scuola italiana. I provvedimenti legislativi possono fare poco o nulla in merito, ma è assurdo trattare ragazzi di 15 o addirittura 20 anni come venivo trattato io a 7. Quando lo faccio osservare mi rispondono semplicemente “Eh, ma tutti fanno così”.

Viceversa i docenti ci pensano cinque volte prima di qualsiasi rimprovero o correzione verso i ragazzi

Se hai una situazione in cui il genitore ti salta alla gola ed esiste una coalizione dei genitori contro di te è chiaro che ci pensi e ci ripensi. Quello della scuola è un meccanismo in cui gli incentivi sono tutti sbagliati. Da un lato il professore si sente dotato di poca dignità e potere. Dall’altro c’è il tipico atteggiamento da funzionario pubblico: mi pagano dai 1300 ai 1600 euro al mese, perché mi devo impiccare su certe faccende? Se viceversa formo bene i miei ragazzi, che dopo 5 anni arrivano come i migliori all’università, ma non ho alcun fattore premiale se non la soddisfazione personale e la benevolenza degli studenti, chi me lo fa fare? Se a tutto questo si aggiunge un ambiente familiare che rischia di diventarmi ostile ad ogni occasione, io ci rinuncio. Occorre che chi fa questo lavoro per passione ed è disposto a misurarsi si coalizzi per una risposta dal basso.

E la politica?

Non mi pare ci sia stata una sensibilità politica idonea. Se guardiamo alla “Buona Scuola” di Renzi era fatta di tante chiacchiere. L’unica cosa ragionevole che c’era, nella sostanza, era l’idea di muovere i docenti sul territorio a seconda della domanda, e sappiamo com’è finita. Non vedo questa sensibilità neanche in questo governo, che finora – mi pare – ha solo portato avanti l’idea di ridurre la rilevanza di quella piccolissima valutazione del merito che era stata introdotta.

Insomma, il problema della scuola e della formazione per il mercato del lavoro in Italia è un problema completamente abbandonato. Ma poi, ogni volta che qualche azienda rara si fa avanti sottolineando la necessità di cooperare, subito si parla di “aziendalismo”. E’ una reazione da proprietari terrieri, una reazione che andrebbe bene in un mondo in cui ad istruirsi è il 2% della popolazione – possidenti, notai, conti e marchesi – che vive di rendita e si dedica alla filosofia e alla teologia morale, mentre la produzione è affidata ai cafoni e ai manovali.

Passiamo all’uscita, in un certo senso, dal mondo del lavoro. Con Quota 100 si prevede un esodo di 70mila docenti. Cosa pensa, applicata alla scuola e non, di questa misura?

Tutto il male possibile. Nella scuola conferma quello che dicevo prima sul sistema degli incentivi che è completamente sballato: la gente non ha motivazione perché non si prevedono stipendi più alti se si lavora di più e quindi va via. Sono anche piuttosto certo che ci saranno molte più uscite al Sud. Anche se la Quota 100 prevede una riduzione percentuale abbastanza leggera della pensione – per me dovrebbe essere più alta – nelle regioni del Mezzogiorno, dove il costo della vita è più basso, alla gente semplicemente conviene andare a casa prima. Perché, se sei abbastanza giovane, ti puoi dare al mercato più o meno sommerso delle ripetizioni, delle scuole private a tempo parziale etc. Questo alimenta una certa “Italia furbetta” che conosciamo.

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Al di là della scuola, però, è un banale fatto di numeri. Visto l’aumento dell’aspettativa di vita, allungare la vita pensionistica mandando i lavoratori a casa prima vuol dire caricare i giovani di un peso sostanziale e dannoso. Andare in pensione a 60 anni vuol dire oggi aver davanti una vita in pensione di 25 o 30 anni e con un salario pari a quello di fine carriera, probabilmente il doppio di quello iniziale. Se si è contribuito per un terzo dello stipendio per 40 anni di lavoro, 3 per 4 fa 12. In altre parole, si parla di 12 anni di contributi versati quando se ne riceveranno per 25 o 30 anni. La differenza tra queste cifre è semplicemente rubata e andrà pagata dai futuri cittadini. E’ un vero e proprio furto intergenerazionale, legittimato da una politica che si compra i voti di quelli della mia età massacrando i ragazzi.

Ma la Quota 100 e il Reddito di Cittadinanza non dovrebbero favorire naturalmente un turnover?

E’ una cretinata. Ci sono milioni di studi che dicono il contrario. Quelli che sostengono tali posizioni sono dei cialtroni che mentono. Sono 40 anni che economisti di tutti i colori studiano questi fenomeni e non c’è nessun naturale turnover, se non nel settore pubblico qualora decida di fare la sostituzione 1 a 1. Ma anche questo è dannoso, perché se sostituisco in questo modo non è ovvio che la persona che io assumo sia un disoccupato. Molta della disoccupazione giovanile, va detto, ha a che fare con scarsa preparazione, scarse competenze e difficoltà culturali e ambientali a muoversi. Se io mando in pensione tre insegnanti al centro di Napoli non è detto che ci siano tre giovani laureati capaci di sostituirli. Ma ammesso che sia così, questo non toglie nulla a quanto dicevo prima: i tre che vanno in pensione dovranno essere mantenuti dai tre giovani assunti.

Nel settore privato, poi, la questione non esiste proprio. I pensionamenti sono sempre stati occasioni per ridurre i livelli occupazionali e basta. Quello che si fa con tre lavoratori si cerca di fare con due e coi soldi risparmiati si investe in macchinari, strutture etc. Il fatto è questo: solo in Italia si pensa alla politica pensionistica come una maniera per creare posti di lavoro. Ci carichiamo di costi e trasformiamo in cittadini inutili e in vacanza persone perfettamente capaci di contribuire, per creare lavoro ai giovani? In realtà bisognerebbe pensare a investimenti per riqualificarli etc. etc.

Anche il Reddito di Cittadinanza passa per una politica occupazionale…

Sarà uno dei più grandi scandali nazionali. Lo capiremo quando vedremo cosa ne verrà fuori tra qualche anno. Ritengo molto probabile che il RdC si trasformi in un enorme sottobosco clientelare. Ma comunque non è politica occupazionale, al massimo è una politica di sussidi.

Per concludere, quale futuro vede per la scuola italiana?

Un futuro come quello di tutto il Paese. Serve una reazione organica e interna di persone capaci e con un proprio senso di dignità professionale e personale, in grado di dire chiaramente che ci sono cose vecchie di cinquanta o cento anni (come i programmi) che vanno rivoltate da cima a fondo. Se non c’è questa reazione, contro criteri di funzionamento da paleolitico che rendono l’istruzione inadatta al mondo in cui viviamo, la scuola italiana seguirà la società italiana nel suo complesso in un lento e progressivo declino.

Un’implicazione drammatica nel lungo periodo della fuga dei ragazzi dall’Italia è la perdita di una frazione sostanziale e crescente dei più capaci tra loro. Nella mia generazione erano, anzi eravamo, abbastanza in pochi a lasciare l’Italia, ma questa tendenza è aumentata in maniera vertiginosa. Questo è un fatto drammatico, certamente, ma occorre sottolineare anche che quelli che rimangono tendono a concentrarsi in “isole di eccellenza”. Dal punto di vista urbano, ad esempio, Milano è una vera e propria calamita per i più ambiziosi e i più dinamici tra i giovani. Nella scuola succede qualcosa di simile: la media generale finisce per degradare e si creano angoli di eccellenza che si distinguono. Tra questi, mi pare di vedere, tante scuole private.

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